Musica è libertà, un binomio a
volte inscindibile ma al tempo molto scomodo, perché quando il potere non
riesce ad utilizzare artisti e cantanti come sponsor, trova in loro un
avversario più pericoloso di mille opposizioni e li trasforma in vittime di
repressioni e censure
Nei giorni scorsi è toccato al
gruppo musicale punk russo delle Pussy Riot, subire una ingiusta e condanna a
due anni di reclusione per la loro preghiera anti-Putin nella Chiesa di Cristo
Salvatore a Mosca e portare di nuovo alla luce il peso della musica unita alla
satira o alla semplice denuncia politica, ma è sempre stato così specie dove
l’arroganza del potere sottovaluta l’impatto di un simbolo del genere
dall’America Latina all’Africa.
I primi esempi furono Miriam
Makeba, “Mama Africa”, a cui venne revocata la cittadinanza sudafricana nel
1960, mentre la sua famiglia riceveva le visite della polizia segreta che
chiedeva informazioni su un’eventuale rientro, mentre la sua musica fu bandita
dal suo paese e chiunque la divulgasse era punito o incarcerato e Mercedes
Sosa, inserita nella lista nera degli oppositori dopo il colpo di stato
argentino del 1974, per poi essere arrestata nel 1978 ed esiliata con la
censura totale. Ma c’è chi ha pagato con la morte le sfide al potere, come l’algerino
Lounes Matoub ed il cileno Victor Jara.
Oggi la protesta prosegue e la
repressione anche, e l’ultimo esempio è Cuba, dove soltanto qualche giorno fa è
stato eliminato il bando verso le canzoni di Celia Cruz e Gloria Esteban e c’è
chi, come Gorki Luis Aguila Carrasco, leader del gruppo rock Porno para
Ricardo, apertamente critico verso il governo cubano, vedendo la vicenda delle
tre ragazze russe rivede allo specchio la propria storia. «Sono solidale con le
Pussy Riot perché la loro vicenda mi tocca personalmente», ha detto il leader
del gruppo su facebook e su twitter. «Stessi politici tiranni, stessa
intolleranza, stessi metodi. Putin e Castro prendono misure drastiche esemplari
ma questo riflette solo la loro immagine di dittatori paurosi e disperati davanti
alla forza di chi si batte per la libertà».
Già 2003 la polizia castrista
impose al gruppo di cambiare nome, considerato volgare e contrario alla morale
pubblica e pretese la modifica dei testi delle canzoni per eliminare gli
espliciti riferimenti alla politica. Dopo il rifiuto di Aguila e colleghi alle
direttive da parte dei musicisti, iniziò la vera e propria repressione. Nello
stesso anno Gorki venne arrestato in virtù di una legislazione anti-droga, ma
il processo cui fu sottoposto dibatté unicamente sulle iniziative
controrivoluzionarie e l’utilizzo della musica rock per disordine sociale e si
chiuse con la condanna a quattro anni.
Il leader del gruppo fu liberato
dopo due anni in seguito ad una mobilitazione internazionale ma nel 2008 venne nuovamente
processato per pericolosità sociale pre-delittuosa, accusa che si smontò e
costò al cantante un’ammenda salata. Arresti, confische, minacce ed aggressioni
sono all’ordine del giorno per Gorki, Ciro, Hebert e Renay come lo sono per
Maria, Yekaterina e Nadezhda e l’unica forza è nel web come megafono del
dissenso ed in fondo la fortuna delle Pussy Riot è che sulla Russia ci sono più
occhi.
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